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Ma voi lo conoscete Soros?

 

Per la milionesima volta negli ultimi anni, Soros (nella conferenza stampa della Meloni di “fine anno”, posticipata all’”anno nuovo) viene additato come il nemico pubblico numero 1, più pericoloso di Elon Musk.

In realtà, anche se tutto il mondo complottista gliene ha reso conto in questi anni, chi in realtà sa chi sia George Soros?

La risposta è: molto pochi, e chi lo conosce davvero è in malafede anche a definirlo un pericolo.

Eppure questo quasi 95enne rappresenta lo “spauracchio”, e il “nemico da colpire” da parte della destra mondiale perché ne è di fatto l’antitesi, e rappresenta la sintesi del pensiero opposto.

Accusato praticamente di qualsiasi cosa, il “magnate” e “filantropo” Soros (una colpa che condivide con un altro obiettivo dei complotti mondiali, Bill Gates), in realtà ha una storia tutta da raccontare.

Ma come è arrivato ad essere citato in ogni occasione come rivale assoluto di qualsivoglia problematica che la destra proponeva o cercava di essere tale.

Il nemico perfetto, che sta bene su tutto, e contro cui i leader della destra xenofoba e antisemita mondiale (e non solo) si possano scagliare alla bisogna.

Adesso è il vero pericolo, e non Elon Musk, che ha un social che può con un algoritmo spostare milioni di voti, che non rappresenta in alcun modo la “famiglia tradizionale” ma alla quale tutto viene perdonato perché ricco, che è notoriamente un drogato e se ne vanta, che viene considerato un “genio” e al quale noi (inginocchiati al suo cospetto) vorremmo delegare il controllo di dati sensibili nostri e soprattutto dello Stato e della nostra difesa.

Al netto dell’evidente pericolo del personaggio sudafricano, che cerca di usare il suo potere accentrato (che è sempre un problema al netto del colore e delle idee politiche) per incidere senza nemmeno troppo nascondersi, sulla politica estera con fare invadente e supponente e con idee razziste nascoste con la notevole ipocrisia del “free speech”.

Stiamo entrando in un mondo nuovo dove il fascino della “post democrazia”, rispetto alla democrazia e ai suoi dibattiti e tempi elefantiaci: un qualcosa che abbiamo visto, con i limiti del secolo scorso e senza la tecnologia attuale, già nel secolo scorso.

Pochi oligarchi decidono per tutti, lo fanno con supponenza, e sembrano più efficaci. In questo modo il loro potere esagera, raggiunge all’inizio buoni risultati con dei costi che non appaiono subito. La classe media si sgonfia, di dirige verso il basso, i diritti acquisiti non diventano più tali, si usa la religione come se fosse una missione divina e poi pochi sono sempre più ricchi, e la classe media diventa povera.

Come è finita e come finirà è chiaro: questo modello causerà all’inizio entusiasmo, sembrerà di essere forti grandi e grossi, e poi dal basso si scatenerà il malcontento. Il potere, come il consenso, non è eterno e qualcuno cercherà di rovesciare la situazione. E questi, o altri personaggi, verranno appesi, eliminati o moriranno semplicemente prima del tracollo, trascinandosi dietro chi li ha venerati e che saranno colpevoli di averli seguiti. Alcuni faranno da voltagabbana, cercheranno di riposizionarsi ma non funzionerà.

Sono i cicli storici che, al netto della nuova tecnologia, si sono sempre ripetuti e sempre si ripeteranno finché non ci estingueremo (il che avverrà perché ogni ciclo negativo fa azioni sempre più distruttive).

Ma questo è quello che, non si sa in quanto tempo, avverrà.

Soros come fa, a questa nuova élite mondiale, a fare così paura? Perchè è il fantasma da chiamare in causa?

 

George Soros ha 95 anni, è un vecchietto malato dalla vita avventurosa. Ma ormai è alla fine dei suoi giorni, ma è la sua idea che fa paura.

Non stiamo parlando di un santo, la sua fortuna vera nasce in maniera da vero e proprio squalo di Wall Street o similari (il suo personaggio ha ispirato Diavoli, una serie famosa di Sky). La sua fortuna poi si è trasformata in qualcos’altro. Ed è questo “qualcos’altro” che fa paura.

Adesso vi racconterò la sua storia.

 

Detestato dai partiti di destra e dai populisti, aborrito da Trump, Putin e Netanyahu, da Salvini e Grillo. Accusato di “pilotare” l’invasione dei migranti e di “congiurare”

contro le identità nazionali europee, Soros è considerato uno spregiudicato speculatore, leader della lobby globalista che “fa affari sulla pelle della gente”.

Come può un filantropo-finanziere trasformarsi in mostro? Capro espiatorio? Idolo polemico? Un utile bersaglio prêt-à-porter che, guarda caso, è anche ebreo? Alle radici di una demonizzazione” (cit. di Ilaria Myr “Perché tutti odiano George Soros, Mosaico-cem)

 

In questo bellissimo articolo si parte da alcune, sgradevoli come sempre, dichiarazioni di Matteo Salvini

Nel Dicembre 2017. «Soros e i suoi miliardi pro clandestini saranno messi al bando: persona (e soldi) indesiderati».



Agosto 2018. «Penso che Soros sia una persona assolutamente negativa e che sta finanziando con centinaia di milioni di euro la dissoluzione della civiltà occidentale».

Ottobre 2018. «Se volessi pensare male direi che dietro lo spread di questi giorni c’è una manovra di speculatori alla Soros che puntano al fallimento di un Paese per comprare le aziende sane rimaste, a prezzi di saldo. A nome del governo dico che non torneremo indietro».

https://www.secoloditalia.it/2018/08/salvini-i-francesi-non-dimenticate-gheddafi-e-sul-selfie-cavolate/


 L’articolo del 2019 parla di “Un’ossessione diffusa“  e di un “Un antisemitismo sotterraneo“

 

Ma prima di approfondire questi aspetti parliamo cronologicamente di lui, del suo background culturale, della sua fortuna e delle sue attività filantropiche.

Pensare che Soros voglia distruggere l’Occidente fa sorridere pensando alla sua storia. Da ragazzo, negli anni Trenta, Soros visse in un appartamento in Kossuth tér, la piazza che si affaccia sul palazzo del Parlamento di Budapest, finché la sua famiglia non fu costretta a dividersi e a vivere sotto false identità per sfuggire all’Olocausto. Lasciò l’Ungheria nel 1947 per studiare a Londra e successivamente emigrò negli Stati Uniti, guadagnando miliardi come investitore e gestore di hedge fund. Qui costruì la sua carriera di finanziere, che lo portò nel 1992 a essere noto come “l’uomo che ha rotto la Banca d’Inghilterra” dopo aver guadagnato un miliardo di dollari scommettendo contro la sterlina. Dopo aver fatto fortuna a Wall Street, è diventato però uno dei più fermi sostenitori della democrazia e dei diritti umani, soprattutto in Europa orientale: ha iniziato a convogliare la sua immensa fortuna in fondazioni che hanno promosso l’idea della “società aperta”, concentrandosi inizialmente sull’Ungheria e su altri regimi nella sfera di influenza sovietica.

 

Alla fine della guerra nel 1947, scampati al nazismo, i Soros (dall’ebraico shoresh: radice) lasciarono l’Ungheria per sfuggire al comunismo e fecero prima tappa a Berna per partecipare a una convenzione di esperantisti. Si recarono poi a Londra, dove il giovane George si iscrisse alla London School of Economics. Si guadagnava da vivere lavorando come cameriere e come facchino. Periodicamente si recava al Hyde Park corner, per fare discorsi in favore della pace nel mondo. Peccato che li pronunciasse in esperanto e quindi in pochi si fermavano ad ascoltarlo. La sua formazione accademica fu profondamente influenzata dal filosofo austriaco Karl Popper, che, alle utopie totalitarie, opponeva le società aperte, dove diversi valori e visioni del mondo avessero cittadinanza, così che il confronto desse spazio a uno sviluppo spontaneo.

 


Nel vivere questa nuova fase della sua esistenza, George Soros, però, si era lasciato indietro un pezzo di vita piuttosto problematico, che non ha mai smesso di accompagnarlo. A fronte di una popolazione ebraica, che nel 1941 in Ungheria contava 708mila anime, i deportati dai nazisti furono 565mila. In pochi sfuggirono alle maglie dell’esercito tedesco, ma Tivadar Soros si premunì in tempo per assicurare la salvezza alla sua famiglia. «Quando nel 1944 i tedeschi occuparono l’Ungheria, mio padre capì immediatamente che non stavamo vivendo nella normalità e che le regole alle quali eravamo abituati non si applicavano a quei tempi. E così organizzò false identità per la sua famiglia e alcune altre persone. Chi poteva pagò e chi invece non poteva fu aiutato gratuitamente. La maggior parte sopravvisse. Fu il suo momento più bello», racconta George Soros in un articolo sul Financial Times il 27 ottobre del 2009. 


George, allora quattordicenne, prese l’identità di figlio adottivo di un funzionario del ministero dell’Agricoltura del governo collaborazionista ungherese. Il burocrate teneva spesso con sé il ragazzo, così che il giovane Soros si trovò nella scomoda posizione di impotente spettatore dell’esproprio dei suoi fratelli ebrei. Questo è bastato negli anni per bollarlo di collaborazionismo con i nazisti.


«Forse un ragazzo dell’età che avevo io non è in grado di fare gli esatti collegamenti, ma quella realtà da me vissuta non mi ha mai creato alcun problema, alcun senso di colpa. Il fatto che io fossi lì o meno, non faceva alcuna differenza. Ero solo uno spettatore. Non ebbi alcun ruolo negli espropri. In quei momenti si forgiò il mio carattere. Ebbi un’esperienza personale del male ed imparai che gli eventi vanno sempre anticipati», spiegò lo stesso Soros in un’intervista del 20 dicembre 1998 a Steve Kroft nel programma 60 Minutes della CBS.

 https://www.youtube.com/watch?v=e5TGtpWOhGk

 

Tutto il mondo ricorda bene quando, nel 1992, il filantropo fu il principale artefice del Mercoledì Nero sui mercati finanziari. Con il suo fondo Quantum, oggi chiuso, Soros liquidò sterline allo scoperto per un equivalente di circa 10 miliardi di dollari statunitensi causando ingenti danni alla Banca d’Inghilterra. La stessa azione fu portata avanti anche con la Banca d’Italia, che fu costretta a vendere 48 miliardi di dollari di riserve per sostenere il cambio, portando a una svalutazione della moneta italiana del 30% e l’estromissione della lira dal sistema monetario europeo. Per rientrare nello Sme, il governo italiano fu obbligato a una delle più pesanti manovre finanziarie della sua storia – circa 93 mila miliardi di lire – al cui interno, tra le altre cose, fece per la prima volta la sua comparsa l’imposta sulla casa (Ici), oggi Imu.

«Gli speculatori fanno il loro mestiere, – affermò a seguito di quell’operazione – non hanno colpe, queste semmai competono ai legislatori che permisero tale speculazione».

Di fatto, quell’operazione portò nelle tasche di Soros oltre 1 miliardo di dollari. Nessuno disse molto all’epoca, ma quando questi fatti vennero diffusi, nell’agosto del 2016, da Dc Leaks le mail hackerate della Open Society Foundations, ci fu di che parlare.

 Il gruppo di pirati informatici artefice dell’operazione scrisse nel proprio comunicato che «George Soros guida più di 50 fondazioni sia globali che regionali. È considerato l’architetto di ogni rivoluzione e colpo di Stato di tutto il mondo negli ultimi 25 anni».

 

"Si tratta del redde rationem di oltre due decenni di politiche economiche figlie della temperie sociale e politica iniziata alla fine degli anni Sessanta e proseguita per tutto il decennio Settanta. Politiche volte a sedare l’inquietudine della società del tempo con la morfina dell’inflazione e con denari sottratti alle generazioni future. Dal momento in cui il debito pubblico che ne risulta inizia a essere collocato presso investitori stranieri, verso la metà degli anni Ottanta, parte un conto alla rovescia che si conclude, nel settembre del 1992, con il ritiro della fiducia da parte di questi ultimi, che dà la stura a facili scommesse speculative sul cambio della lira e a una traumatica svalutazione di questa. Il sistema politico detto della Prima Repubblica, ormai corroso dall’interno, implode rovinosamente pochi mesi dopo (Salvatore Rossi. Economista)"

 

Oltre alla manovra finanziaria del 1992 una delle sue "grandi colpe" è la Open Society Foundation!


Il personaggio non è facile da afferrare nella sua complessità e per capirlo meglio è opportuno guardare alla sua biografia, dove si trovano elementi utili a inquadrarlo.

 

Il primo è la sua appartenenza alla comunità ebraica ungherese, che da sempre si è contraddistinta per una forte volontà d’integrazione nella società circostante, anche a costo di nascondere la propria identità, per esempio, cambiando nome. È il caso della famiglia Soros, che in realtà si chiamava Schwarz. Il legame dei Soros con il loro paese d’origine non è mai venuto meno fino ad oggi, anche dopo la persecuzione nazista aiutata dai collaborazionisti antisemiti ungheresi. A Budapest ha fondato nel 1991 la Central European University (CEU), che, come vedremo dopo, è stata costretta a spostarsi a Vienna. Il secondo elemento è il padre Tivadar (Theodor), avvocato, editore, scrittore, ma soprattutto convinto esperantista. Mentre gli ebrei sionisti operavano per dare una dimensione sempre più nazionale alla propria identità, l’esperantista Tivadar e poi anche il figlio George compivano un percorso contrario: perseguire un mondo senza barriere culturali superando il primo ostacolo, quello linguistico. Non un internazionalismo in stile comunista o un cosmopolitismo senz’anima, bensì una “Open society” (Società aperta), un concetto richiamato nel nome della fondazione di George Soros: The Open Society Foundations.

 

una rete di fondazioni internazionali che sostengono finanziariamente i gruppi di società civile in tutto il mondo, con l’obiettivo dichiarato di “promuovere la giustizia, l’istruzione, la sanità pubblica e i media indipendenti”. Ispirata al concetto di “società aperta” sviluppato da Karl Popper nel 1975 nel libro The Open Society and Its Enemies, dalla sua fondazione nel 1993 ad oggi l’OSF ha elargito donazioni per oltre 11 miliardi di dollari alle più varie iniziative sociali e civili per ridurre la povertà, favorire la formazione dei giovani più disagiati con borse di studio e università in tutto il mondo. Molto noto il contributo dato alla caduta del comunismo nell’Europa orientale attraverso gli aiuti a Solidarnosc, Sakharov e Carta77; e poi un aiuto decisivo alla Rivoluzione delle Rose in Georgia; generosi finanziamenti ai bambini poveri dello Stato di New York e dell’Africa; la fondazione di organizzazioni non governative per la promozione di democrazia e diritti umani in decine di Paesi totalitari.

Inoltre: ha investito milioni nella campagna contro George Bush, di cui condannava la guerra totale al terrorismo, ha finanziato generosamente sia Obama sia Hillary Clinton, ed è un acerrimo nemico di Trump.

 

In uno storico articolo sull’Internazionale di qualche anno fa:

 

“Le ragioni per essere bersaglio dell’odio di molti, insomma, non mancherebbero.

 

E Salvini non è l’unico: sono infatti in molti, politici e no, principalmente di destra e dei partiti populisti, a scagliarsi, oramai da anni, contro il finanziere ungherese naturalizzato americano. In Italia anche Beppe Grillo, nel 2017, si era espresso contro il premier Gentiloni per avere ricevuto Soros, “miliardario grazie alle speculazioni sulla pelle dei cittadini”. 



Ma in prima linea c’è il premier magiaro Viktor Orban, che ha messo in atto una vera e propria guerra contro di lui, accusandolo di essere l’organizzatore delle immigrazioni verso l’Europa e l’Ungheria: una lotta quotidiana continua, fatta sui media e soprattutto con le leggi – una su tutte quella introdotta a giugno 2018 contro i finanziamenti stranieri “all’immigrazione illegale” – che ha l’obiettivo di mettere Soros e la sua fondazione ai margini della società ungherese. Proprio di recente, a fine novembre, ha messo a segno un’altra vittoria importante, spingendo l’Università dell’Europa Centrale, fondata e sostenuta dal miliardario, a lasciare Budapest per trasferirsi a Vienna.

C’è poi Vladimir Putin, forse il campione anti-Soros in Europa, che lo utilizza in chiave anti Unione Europea.

Ma anche il presidente americano Donald Trump, che attraverso il Washington Post molto vicino al Presidente, non perde occasione di attaccare il padre della Open Society, fra i più importanti finanziatori del partito democratico; e tra i suoi odiatori c’è lo stesso Benjamin Netanyahu, che lo ha accusato “di danneggiare i governi israeliani democraticamente eletti attraverso il finanziamento delle organizzazioni che diffamano lo Stato ebraico”, cioè le Ong che criticano il governo e in alcuni casi appoggiano il boicottaggio di Israele, invise a Netanyahu.

Non solo: il premier israeliano accusa anche Soros di favorire l’“infiltrazione” di africani in Israele. Per non parlare del figlio di Bibi, Yair Netanyahu, che aveva fatto scandalo per avere diffuso una caricatura di Soros che tiene il mondo appeso a una canna da pesca… E in effetti basta guardare le sempre più numerose vignette che lo ritraggono per rendersi conto di quanto oggi sia in atto una vera e propria demonizzazione di Soros, identificato come piovra che gestisce il mondo, burattinaio dei politici e, soprattutto, come manovratore delle onde migratorie nei Paesi sviluppati.

Un’ossessione, quella contro Soros, che dagli anni ’90 a oggi è cresciuta, peggiorando. Come ha scritto il figlio, Alexander Soros, a fine ottobre sul New York Times, all’indomani dell’invio di un pacco bomba al padre (e in contemporanea a Barak Obama e Hillary Clinton), tutto è cambiato nel 2016. “Prima – scrive Alexander – il vetriolo che Soros doveva fronteggiare veniva dalle frange estremiste, dai suprematisti bianchi e i nazionalisti che cercavano di minare le fondamenta stesse della democrazia. Ma con la campagna presidenziale di Donald Trump, le cose sono peggiorate. Suprematisti bianchi e antisemiti hanno dato il loro appoggio a Trump”. Nello stesso periodo, in Ungheria, il primo ministro Viktor Orban, lanciava una campagna, con manifesti antisemiti, che accusava Soros di voler inondare l’Ungheria di migranti, arrivando anche – scrive ancora Alexander Soros – a “dipingere la faccia di mio padre sul pavimento dei tram di Budapest, in modo che la gente potesse calpestarlo; tutto per servire l’agenda politica di Mr. Orban”. Per il figlio del magnate, non c’è dubbio: gli attentati dinamitardi di cui è stato oggetto il padre sono figli della “nuova normalità della demonizzazione politica che ci affligge oggi”.

E ancora

“Ma perché Soros è diventato l’orco cattivo? Che cosa attira l’odio dei populisti verso questo miliardario? «La ragione principale è proprio la Open Society Foundations che Soros ha creato : un’organizzazione il cui obiettivo è combattere le discriminazioni nei confronti delle minoranze, favorendo una società aperta, come la immaginava Karl Popper. Ciò si traduce oggi nel supporto alle Ong che aiutano i migranti in fuga, nel finanziamento a progetti di integrazione e multiculturalismo, così come di iniziative contro la discriminazione», spiega a Bet Magazine-Bollettino Elia Rosati, storico contemporaneo, collaboratore e “assistente” della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, studioso e conoscitore delle destre radicali in Europa. E prosegue: «Sono aspetti, questi, tutti profondamente avversati dai politici e ideologi populisti che vedono in Soros il Male Assoluto, il rappresentante maximo della “lobby globalista” che mira a distruggere le identità nazionali e, soprattutto il “burattinaio” della “Grande sostituzione” (la teoria sviluppata dal francese Renaud Camus basata sull’esistenza di un progetto che favorisce le immigrazioni in Europa, orchestrato da fantomatiche lobby finanziarie internazionali, aiutate dai partiti di sinistra, vedi Bet Magazine gennaio 2018, ndr)». La diffusione sempre più estesa di queste opinioni è evidente dal numero di governi che si stanno muovendo contro la Open Society, dichiarando illegali i finanziamenti da Ong con capitali stranieri: è successo nell’Ungheria di Orban, ed è al vaglio anche nell’Austria del democristiano Kurtz.”

https://www.internazionale.it/sommario/1298

https://www.internazionale.it/notizie/hannes-grassegger/2020/02/14/nemico-soros

 

 

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Un antisemitismo sotterraneo

Potente, ricco, rappresentante della finanza americana, finanziatore delle immigrazioni. E per di più ebreo. «Anche se la sua identità ebraica non è l’oggetto principale degli attacchi contro di lui, è comunque un aspetto in più, che striscia sullo sfondo – continua Rosati -: un antisemitismo criptico, non dichiarato, che rimane però forte, pronto a venire fuori». Vuole dire che prima o poi il vaso di Pandora verrà scoperchiato? «Voglio dire che man mano si alzerà l’asticella, come è già avvenuto in questi anni – continua -: nel 2015 Salvini non parlava di Soros, mentre oggi lo fa di continuo». Un’escalation preoccupante, avvenuta in pochi anni, che rischia di peggiorare con le elezioni europee, in maggio, in cui i temi più caldi saranno l’euro e l’immigrazio0ne. E l’antisemitismo, latente, è pronto a saltare fuori. «Il problema, in Italia, è che la comunità ebraica in parte sottovaluta questo pericolo, proveniente dalla destra e dai partiti populisti – continua Rosati -. L’antisemitismo nella classe media sta crescendo, chiunque può comprare all’Esselunga la rivista di CasaPound Il Primato nazionale, con in prima pagina Emanuele Fiano o George Soros (stranamente entrambi ebrei?), mentre Diego Fusaro alla 7 parla senza contradditorio di “Grande sostituzione”, utilizzando argomentazioni cripto-antisemite: questo è lo scenario in cui viviamo, da cui non dobbiamo mai distogliere l’attenzione».

 

 

Qualche anno fa, nel febbraio 2018, ha deciso di donare 18 miliardi di dollari alla sua Open Society Foundation, la fondazione sulla «società aperta», ed è rimasto con un patrimonio netto di «soli» 8 miliardi di dollari.

Tra il 1979 e il 2011 si stima che Soros abbia donato oltre 11 miliardi di dollari alle più varie iniziative sociali e civili per ridurre la povertà, favorire la formazione dei giovani più disagiati con borse di studio e università in tutto il mondo. Ma anche per sostenere le iniziative del fronte progressista.

 

 

Il «globalista» che crede nel libero mercato



Breitbart News, la società di Bannon che produce documentari politici al veleno, lo ha bollato come un «globalista», perché Soros è a favore del libero mercato e della globalizzazione e non ha cambiato idea negli ultimi tempi. Lui, Soros, che spesso cita il filosofo Karl Popper e il suo testo fondamentale por la storia della dottrine politiche, quella Società aperta e i suoi nemici di cui è un grande estimatore oltreché studioso, ha deciso di entrare nell’arena delle battaglie politiche a tarda età, nella fase finale della sua vita dopo decenni di attività finanziarie in prima linea e di attività filantropiche per le comunità. È diventato un simbolo vivente di ciò che non piace ai movimenti di estrema destra ed è divenuto il punchball dei movimenti populisti in tutto il mondo.

 

George l’anti Orban

La sua idiosincrasia verso nazionalismo e populismo, la difesa di cosmopolitismo, mercati aperti e immigrati nascono come risposta a quanto sta succedendo in Ungheria, nel suo paese d’origine, nell’era post comunista di Victor Orban, quella sovranità a tutti i costi che va a scapito della tradizionale attenzione a istituzioni sovranazionali come l’Unione europea vieppiù bistrattata. Un sentimento che è cresciuto nei Paesi dell’Est Europa, in Polonia, in Scandinavia e nei Balcani. Bannon, l’ex ispiratore delle politiche di Trump, sta cercando di organizzare le forze di questa internazionale populista e sovranista transeuropea in ottica proprio contraria a quanto faccia Soros con la sua attività filantropica sostenendo i rifugiati e il loro diritto di asilo. Due visioni del mondo contrapposte. «È una guerra», ha spiegato Bannon qualche anno fa in un’intervista radiofonica. «Una guerra per il controllo. Soros e le altre Ong lottano, ci distruggeranno».”

 

Insomma, il finanziere filantropo è diventato così il simbolo vivente del male, di quello che agli occhi di Bannon è il contrario dell’affermazione del sovranismo, inteso come micidiale mix di xenofobia, individualismo fatto istituzione, guerre commerciali e protezionismo e ostilità alle organizzazioni internazionali nate dopo la Seconda guerra mondiale per mantenere la pace in Occidente finora. Soros, sopravvissuto al nazismo, non lo ha dimenticato. E si batte per difendersi da questo vento di destra che soffia forte negli ultimi tempi nei due lati dell’Oceano. Per questo lo odiano tutti i sovranisti.

 

George Soros sembra impersonare il classico stereotipo dell’ebreo ricco, potente e immorale, da sempre additato dagli antisemiti come un aspirante dominatore del mondo mondiale, la sua ultima colpa sarebbe quella di aver organizzato l’esodo di masse di profughi verso gli Usa e verso l’Ungheria.

 

 

 

Nel 1970 lanciò il Soros Fund Management, fondo speculativo, che diede origine alla sua fortuna oggi quantificabile in 26 miliardi di dollari, dei quali 18 sono stati investiti nei suoi progetti umanitari. Celebri le sue speculazioni sulla sterlina inglese e sulla lira italiana nel 1992 e quelle sul baht thailandese e il ringgit malese all'inizio del 1997. Arrivò a guadagnare la strabiliante media di un miliardo di dollari all’anno, senza curarsi di essersi attirato le ire dei paesi, vittime delle sue spregiudicate azioni finanziarie

Dietro i successi finanziari di Soros, c’è una sua straordinaria capacità di interpretare i mercati seguendo la sua teoria sulla “riflessività dei mercati”, che guarda alle percezioni e alle aspettative per trovare le opportunità di profitti speculativi. La filosofia, che lui ha sempre amato applicata agli affari, ma poi in altro modo anche all’impiego dei capitali accumulati.

 

Su Facebook, YouTube e Twitter quando si digita “Soros” c’è di tutto.

Che George Soros sia ebreo è vero, tutto il resto è falso ed è stato inventato e diffuso durante una delle campagne politiche più velenose ed efficaci di tutti i tempi.

Fino a qualche anno fa Soros era un miliardario la cui critica al capitalismo era tenuta in considerazione perfino al Forum economico mondiale di Davos.

Nel suo ufficio newyorchese, al trentottesimo piano di una torre di vetro piena di spigoli, Michael Vachon, portavoce di Soros, si chiede come sia potuto succedere che il suo capo, uno stimato filantropo, sia diventato una delle persone più odiate al mondo. Nel 2017 Vachon ha cominciato la cosiddetta “analisi del sentimento” per cogliere le dimensioni del problema. Sul suo computer si staglia una curva arancione che rappresenta le reazioni in rete al nome Soros: il finanziere è citato decine di migliaia di volte alla settimana, e in alcune settimane si tratta quasi solo di citazioni negative. È il grafico della febbre dell’odio.

 

Solo due persone conoscono la risposta alla domanda di Vachon. Una è morta e l’altra, in una soleggiata mattina di agosto del 2018, si trova davanti a un abbondante buffet nel Westin Grand Hotel di Berlino. È un uomo con un fisico da maratoneta: alto, magro, col cranio e il viso perfettamente rasati e un paio d’occhiali tartarugati che incorniciano due penetranti occhi azzurri. George Eli Birnbaum è nato a Los Angeles nel 1970 e si chiama come suo nonno, fucilato dai nazisti davanti agli occhi del figlio, che scampò all’olocausto fuggendo negli Stati Uniti. Ma l’antisemitismo seguì la famiglia fino ad Atlanta, dove il giovane George è cresciuto. La scuola privata ebraica che frequentava era imbrattata di continuo con scritte antisemite. Ogni fine settimana il padre gli dava il Jerusalem Post. “Preoccupati prima degli ebrei, poi del resto del mondo”, gli diceva. E pian piano George Birnbaum si convinse che solo uno stato forte, Israele, avrebbe potuto proteggere gli ebrei da un nuovo olocausto. Parlare di questa storia gli riesce difficile ed è la prima volta che rilascia dichiarazioni a un giornalista. Ma il contributo di Birnbaum è stato decisivo per il rafforzamento della nuova destra in tutto il mondo e per il ritorno dell’antisemitismo come arma politica. Tutto questo è successo mettendo alla gogna un ebreo: George Soros.

 

Questa storia è cominciata più di ventitré anni fa, il 4 novembre 1995, con l’attentato al primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, il leader politico che più di ogni altro aveva dato speranze di pace a Israele. Dopo l’attentato furono rapidamente indette nuove elezioni. I candidati erano Shimon Peres, un socialdemocratico della generazione dei padri fondatori, che voleva portare avanti il processo di pace avviato da Rabin, e Benjamin Netanyahu, detto Bibi, consulente aziendale, principiante della politica e uomo di destra. In molti sorrisero delle ambizioni di Netanyahu. Nei sondaggi arrancava dietro Peres con più di venti punti percentuali di distacco.

 

All’improvviso però il partito di Neta­nyahu, il Likud, cominciò a bombardare il paese con cupi slogan elettorali come “Peres dividerà Gerusalemme”, che spaventavano gli elettori, anche se Peres non aveva alcuna intenzione di dividere Gerusalemme. Il giorno delle elezioni i due candidati erano testa a testa. Intorno alle 22 le tv annunciarono che, secondo le prime proiezioni, Peres avrebbe vinto di misura. A quel punto Netanyahu chiamò Arthur Finkelstein, il direttore della sua campagna elettorale. Finkelstein, a New York, si precipitò alla cornetta. “Non preoccuparti”, disse a Netanyahu. “Io i testa a testa li vinco sempre”. Netanyahu vinse di misura.

 

Arthur Finkelstein era un genio”, dice Birnbaum. Era un uomo dei numeri, un cosiddetto pollster, un consulente che sviluppa tattiche e strategie per i clienti sulla base dei sondaggi. Analizza opinioni, stati d’animo, elementi unificanti o divisivi nella popolazione in modo che i clienti possano sfruttarli a proprio vantaggio.

 

A volte i pollster progettano anche le campagne elettorali. Nel caso di Israele Finkelstein aveva progettato perfino un candidato: Netanyahu era una sua creazione. “Arthur stabilì tutto quello che Bibi fece durante la campagna elettorale”, scrivono Ben Kaspit e Ilan Kfir, biografi di Netanyahu.

 

Finkelstein era un uomo discreto. In rete si trovano solo due dei suoi discorsi in pubblico. Nessuno riusciva a capirlo del tutto, neanche i suoi clienti. Arrivava, dava consigli e spariva. Il giorno delle elezioni non era mai presente. Sul posto lasciava i suoi collaboratori, che si definivano gli Arthur’s kids, i “ragazzi di Arthur

Finkelstein è il filo rosso nella storia recente dei repubblicani, da Ayn Rand passando per Richard Nixon fino a Donald Trump. Al college conobbe Rand, la madre del libertarianismo. Più avanti aiutò il leggendario Barry Goldwater, che a metà degli anni sessanta reinventò i repubblicani da destra. Finkelstein sopravvisse allo scandalo Watergate e nel 1980 contribuì alla vittoria di Ronald Reagan. Poi collaborò con George Bush senior e anche con un imprenditore di nome Donald Trump, a cui predisse addirittura una carriera in politica. Il team della campagna elettorale di Trump era pieno di ragazzi di Arthur: da Larry Weitzner a Tony Fabrizio fino al vecchio amico di Finkelstein, Roger Stone. Anche Richard Grenell, ambasciatore statunitense a Berlino, aveva rapporti con Finkelstein, così come David B. Cornstein, l’ambasciatore statunitense in Ungheria. Il collegamento tra Finkelstein e la comunicazione repubblicana recente si potrebbe spiegare così: quando Finkelstein era la chiave di volta della campagna elettorale di Ronald Reagan, quest’ultimo cominciò a usare lo slogan stranamente cupo e profondamente reazionario che oggi tutti conoscono: “Let’s make America great again”.

 

Finkelstein seguiva una formula che adattava a ogni contesto: il negative campaigning. È un tipo di campagna elettorale in cui si preferisce attaccare un avversario invece di difendere il proprio programma. Finkelstein partiva dal presupposto che le elezioni si decidono sempre in anticipo. La maggior parte delle persone sa bene per chi voterà: è a favore di alcune cose, contraria ad altre e difficilmente cambia idea. In parole povere, scoraggiare le persone è molto più facile che motivarle. È così che si possono far perdere voti all’avversario. Oggi si parla di voter suppression, eliminazione degli elettori. Brad Parscale, che ha gestito la campagna digitale di Trump, l’ha definita uno degli strumenti più importanti delle presidenziali statunitensi del 2016. Il metodo è una sorta di moderno manuale d’istruzioni del populismo di destra.

 

Finkelstein, che in origine faceva il programmatore nel campo della finanza, nel suo lavoro di sondaggista registrava dati sulla popolazione: età, residenza, candidato preferito, convinzioni politiche, numero di presenze in chiesa. Il suo talento consisteva nel sapere individuare i “temi centrali”, quelli che suscitano maggiore interesse, e quelli che fanno più male all’avversario. Presto si rese conto che spesso coincidevano. “Droga, criminalità e colore della pelle”: erano i temi che nel 1972 indicò in un documento per Richard Nixon. Il suo obiettivo era polarizzare al massimo l’elettorato, mettere gli elettori gli uni contro gli altri. La paura faceva da carburante. “Bisogna fingere che il pericolo venga da sinistra”, consigliò a Nixon, che avrebbe dovuto portare alla ribalta temi capaci di spaventare la popolazione.

 

Ma, soprattutto, pensava che attaccare fosse un obbligo. Chi non colpisce per primo finirà per essere colpito. Finkelstein la metteva sul personale: in ogni campagna elettorale dev’esserci un nemico da sconfiggere. Trasformò il negative campaigning in una tecnica che chiamò rejectionist voting. L’idea era questa: la cosa più importante non è evidenziare i pregi del proprio candidato, ma proiettare ogni possibile elemento negativo sull’avversario, distruggendo la fiducia degli elettori. Finkelstein non aveva peli sullo stomaco.

 

L’ultimo passo del metodo era tendere una trappola all’avversario: Finkelstein metteva in giro una notizia falsa, contando sul fatto che l’avversario si sarebbe incastrato da solo cercando di smentirla. Infatti reagendo all’accusa l’avrebbe inevitabilmente legata al suo nome, mentre ignorandola non avrebbe avuto modo di confutarla. Nel migliore dei casi poi la falsa notizia sarebbe stata di per sé così strana o sconvolgente da essere ripresa dai mezzi d’informazione.

 

Finkelstein diventò famoso per aver trasformato il termine liberal in un insulto. Chiamava gli avversari ultraliberal, “terribilmente liberal” o “imbarazzatamente liberal”. Mark Mellman, il grande esperto elettorale dei democratici statunitensi, afferma: “Bollare qualcuno come liberal, farne un insulto e ripeterlo all’infinito era un metodo semplice ma efficace. Probabilmente nessuno ha mai fatto eleggere al congresso degli Stati Uniti più politici di Finkelstein”.

 

Nel 1996 in Israele Finkelstein applicò la ricetta nella sua totalità, sparando a zero su Peres da tutti i fronti. I suoi slogan duri e concisi arrivarono sui mezzi d’informazione. Nell’ultimo talk show prima del voto Peres cadde in trappola: chiarì immediatamente di non avere alcuna intenzione di dividere Gerusalemme. A quel punto Netanyahu l’aveva in pugno e al suo risveglio, il giorno dopo le elezioni, Peres se lo ritrovò primo ministro col 50,5 per cento dei voti.

 

Finkelstein aveva ottenuto il lavoro in Israele grazie all’amico e cliente Ron Lauder, erede miliardario dell’impero dei cosmetici e all’epoca finanziatore di Netanyahu. All’inizio era un’occupazione secondaria: il primo lavoro di Finkelstein era la campagna contro la rielezione di Bill Clinton. Ma in Israele Finkelstein scoprì che la sua formula funzionava anche fuori dagli Stati Uniti. Dopo la vittoria di Netanyahu, tutti i partiti puntarono sul negative campaigning e Finkelstein fu molto richiesto.

 

C’era lui dietro la sorprendente vittoria di Ariel Sharon nel 2001, e con Avigdor Lieberman trovò un cliente ancora più a destra. I trionfi israeliani inaugurarono una fase nuova: Finkelstein rivolse la sua attenzione all’Europa. Per questo avviò una collaborazione con George Eli Birnbaum. I due formarono una squadra che più avanti diede vita all’eredità più longeva di Finkelstein: il suo mostro. Birnbaum racconta di aver conosciuto la mente occulta dei repubblicani alla metà degli anni novanta a Washington. Allora era un ragazzo e ogni mattina portava a Finkelstein pile di sondaggi. “Tutto quello che Arthur faceva si basava sui numeri”, ricorda Birnbaum, “ma nessuno riusciva a ricavarne quello che ne ricavava lui”. Per il mondo esterno Finkelstein, lo stratega della destra, era un enigma. Ma Birnbaum ci mise poco per imparare a conoscerlo. Era un uomo gentile, scaltro, brillante ma comunque umile, pieno di aneddoti sulle cerchie più interne del potere. Rampollo di una famiglia ebraica del Queens, si prendeva gioco delle prescrizioni kasher. Un nerd, con il taschino della camicia pieno di penne e bigliettini per prendere appunti.

 

Nell’ingessato mondo della politica Finkelstein portava sempre la cravatta allentata e si aggirava per l’ufficio senza scarpe. Poteva permettersi qualsiasi cosa perché era l’emisfero destro della destra. Raccontò a un collaboratore che una volta il capo di gabinetto di Reagan lo ringraziò per iscritto per essersi presentato nello Studio ovale “indossando le scarpe per quasi tutto il tempo”. Come disse agli studenti di Praga, la sua passione erano le campagne elettorali, che gli ricordavano una spiaggia sabbiosa: a prima vista è sempre uguale, ma in realtà cambia di continuo. Basta un’onda o una tempesta perché tutto si trasformi. Il suo amore più profondo però andava alle sue due figlie, e al suo compagno. Arthur Finkelstein, l’uomo che aiutava i repubblicani radicali e omofobi a scalare il potere, era omosessuale. L’amore della sua vita si chiamava Donald.

 

Nel 1998 Finkelstein chiese a Birnbaum di lavorare per il Likud in Israele. A Birn­baum sembrò di realizzare un sogno. Anche se la rielezione di Netanyahu non sarebbe poi andata in porto, i due diventarono una squadra: Finkelstein capitano e Birnbaum timoniere. Mentre Finkelstein faceva avanti e indietro da New York, Birn­baum teneva la posizione in Israele, dove presto diventò una sorta di assistente personale di Netanyahu, organizzando le sue apparizioni in pubblico, facendo da portavoce con la stampa e a volte perfino da babysitter ai figli.

 

Nel 2006 Birnbaum fondò insieme a Finkelstein la Geb International, l’azienda con cui sarebbero andati all’assalto dell’Europa orientale. Birnbaum cercava i clienti a cui vendere la formula Finkelstein. In Romania portarono al potere Calin Popescu-Tariceanu, in Bulgaria Sergei Stanishev. Nel 2008 in Ungheria c’era un uomo che voleva tornare al potere: l’ex premier Viktor Orbán. L’avrebbe aiutato Netanyahu, legato a lui da una vecchia amicizia. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz fu Netanyahu a mettere in contatto Orbán con Finkelstein e Birnbaum. Tutto cominciò con una vittoria referendaria, ricorda Birnbaum: nel 2008 Orbán e il suo partito, il Fidesz, erano lanciatissimi verso le elezioni politiche del 2010.

 

Se Finkelstein è un artista, l’Ungheria è il suo capolavoro. Secondo Birnbaum, all’inizio furono assunti ufficialmente per un anno da Századvég (fine secolo), una fondazione vicina al Fidesz. Per le elezioni del 2010 puntavano sulla classica ricetta Finkelstein: concentrarsi sulle debolezze degli avversari, tenendo il proprio candidato lontano dai riflettori. Quindi travolsero il governo socialista con attacchi a tutto campo. Ancora oggi Birnbaum ripensa con stupore alla facilità dell’impresa: “Nel 2010 sbaragliammo i socialisti ancora prima delle elezioni”. Ma presto saltarono fuori dei nuovi avversari: l’Ungheria soffriva sotto i colpi della crisi e per salvarsi aveva bisogno di un’iniezione di capitali. In cambio del credito, la Banca mondiale, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale imposero l’austerità. Così i due statunitensi consigliarono a Orbán di scegliersi come nemici i burocrati e il grande capitale straniero. Il paese si spostava a destra, a tutto vantaggio del Fidesz, e Orbán vinse le elezioni con una maggioranza di due terzi.

 

Birnbaum e Finkelstein, ormai entrati nella cerchia più stretta di Orbán, avevano un problema. Mentre il vincitore soddisfatto si apprestava a riscrivere la costituzione, loro due faticavano a trovargli un nuovo nemico. “Non c’era più nessuna opposizione”, racconta Birnbaum. Sconfitti il partito di estrema destra Jobbik e i socialisti, restavano solo dei piccoli gruppi frammentati. “Avevamo un presidente con una maggioranza mai vista prima in Ungheria”. E per mantenerla serviva un elevato livello d’energia. “La base dev’essere sempre carica, bisogna darle una ragione per uscire di casa e andare ancora a votare”. Serviva qualcosa di forte, come lo slogan di Trump: “Build the wall!”, costruiamo il muro con il Messico.

 

La formula Finkelstein ha bisogno di un nemico per far funzionare la campagna elettorale. “È il metodo migliore per compattare le truppe”, spiega Birnbaum. “Arthur diceva sempre che non si combattono i nazisti, si combatte Hitler. Non si combatte Al Qaeda, si combatte Osama bin Laden”. Ma chi poteva ricoprire un ruolo simile in Ungheria? Dove si nascondeva il drago sputafuoco a cui muovere battaglia? Contro chi Orbán avrebbe potuto chiamare il popolo alle armi?

 

Il premier ungherese stava costruendo una narrazione diversa e più drammatica del paese. Gli dava una mano Mária Schmidt, una storica che Orbán aveva nominato direttrice del memoriale nazionale per le vittime delle dittature nel 2002, all’epoca del suo primo governo. Una donna combattiva e anche una ricca ereditiera. Schmidt presentava l’Ungheria – che era scesa a patti con Hitler – come una vittima innocente, la custode perseverante e coraggiosa della propria identità, una nazione perennemente sotto assedio, prima da parte degli ottomani, poi dei nazisti e infine dei comunisti. La sua missione era sempre stata quella di respingere le minacce esterne e difendere la cristianità. Fu tutto questo che diede a Finkelstein l’ispirazione di cui aveva bisogno. E la sua idea fu così diabolica da sopravvivergli.

 

In fondo si trattava di portare avanti la narrazione del grande capitale straniero che complotta contro la piccola Ungheria. Ma con un crescendo drammatico: all’improvviso si alzava il sipario dietro il quale si cela il complotto e compariva il personaggio che ne teneva in mano le fila, non limitandosi a dirigerlo ma addirittura incarnandolo. Era un uomo in carne e ossa, nato in Ungheria: estraneo e allo stesso tempo conosciuto. Era George Soros, disse Finkelstein. Birnbaum riconobbe subito la genialità dell’idea: “Era l’avversario perfetto”.

 


Il mostro Soros nacque così. Un multimiliardario potentissimo e con agganci in ogni angolo del pianeta: per sconfiggerlo era necessario che l’intera nazione si radunasse dietro a Orbán. In Ungheria si creò un personaggio odioso che presto sarebbe stato ripreso dai politici di tutto il mondo. All’inizio la proposta di Finkelstein sembrò assurda. Non si poteva fare campagna elettorale contro qualcuno che non era un politico e che neanche viveva in Ungheria, contro un anziano conosciuto in tutto il paese come un mecenate e un benefattore, qualcuno che prima del crollo della cortina di ferro sosteneva l’opposizione anticomunista e dopo aveva fornito pasti gratuiti ai bambini delle scuole, l’uomo che aveva fondato una delle migliori università dell’Europa orientale, la Central european university (Ceu), nel centro di Budapest. Lo stesso Orbán aveva preso soldi da Soros: quando era all’opposizione, le riviste pubblicate dalla sua piccola fondazione clandestina, Századvég, erano stampate con una fotocopiatrice comprata con i soldi di Soros.

 

Inoltre Orbán era stato uno dei quindicimila borsisti della Open society foundations. È stato grazie a Soros che Orbán ha potuto studiare filosofia a Oxford. I due si sono incontrati una sola volta, nel 2010, quando Soros andò in Ungheria dopo un’inondazione per donare un milione di dollari di aiuti. Quindi non c’era davvero alcun motivo di avercela con lui.

 

Per Orbán la campagna contro Soros aveva senso non solo per la politica interna, ma anche per quella estera. Avrebbe fatto sicuramente piacere alla vicina Russia. Il presidente russo Vladimir Putin temeva le cosiddette rivoluzioni colorate, come le primavere arabe o la rivoluzione ucraina, e stava cominciando a muoversi contro Soros, che sosteneva le forze liberali. Niente unisce più di un nemico comune. Sul piano interno la campagna piaceva a Mária Schmidt, convinta che ci fosse Soros dietro le critiche che i democratici statunitensi muovevano alla sua patriottica favoletta revisionista. Di recente Schmidt ha raccontato a una giornalista statunitense di aver avuto la rivelazione nel 2008, grazie al programma tv satirico statunitense “Saturday night live”, che presentava un imitatore di Soros chiamandolo “George Soros, padrone del Partito democratico”.

 

Da parte di Soros non è mai arrivata alcuna smentita. E per Schmidt era evidente che le cose stessero così. Si è sempre discusso molto della collaborazione di Finkelstein e Birnbaum con Orbán. In Ungheria Finkelstein è quasi un personaggio mitologico. Orbán però non si è mai espresso chiaramente sul suo ruolo. Birnbaum è stato il primo, tra i personaggi coinvolti nella vicenda, ad accettare di parlarne, ma sono molte le questioni che non ha voluto toccare. Non ha rivelato i dettagli della collaborazione: inventavano gli slogan o si limitavano alle idee guida? Gestivano direttamente la campagna elettorale? Comunque quello che è successo in Ungheria negli anni successivi è sotto gli occhi di tutti, come le conseguenze a livello mondiale. In effetti era bastato mettere insieme tutti gli argomenti e le misure contro Soros che arrivavano da est e da ovest, da destra e da sinistra, per avere la campagna bella e fatta. L’unica vera novità è stata quella di inserire Soros nella campagna elettorale come principale avversario.

 

Il primo colpo partì il 14 agosto 2013, nove mesi prima delle elezioni. Il giornale filogovernativo Heti Válasz pubblicò un attacco ad alcune ong accusate di essere controllate da Soros. Per la prima volta fu ventilata l’idea di un complotto orchestrato da Soros ai danni dell’Ungheria.

 

Tutto avvenne grazie a un raffinato gioco di squadra, in cui si alternavano presunti articoli d’inchiesta sensazionalistici e reazioni ufficiali degli esponenti di governo. La campagna diffamatoria si faceva sempre più sfacciata. L’Ungheria copiò la mossa di Putin, che aveva tolto la licenza a un’università di San Pietroburgo cofinanziata da Soros. Nel febbraio 2017 cominciarono gli attacchi alla Central european university, diretta da Michael Ignatieff, uno stimato storico canadese che nel suo paese si era candidato contro il Partito conservatore, per il quale lavorava Finkelstein.

 

Un primo picco della campagna contro Soros fu raggiunto nel luglio del 2017 quando l’Ungheria si riempì di manifesti che mostravano il volto del finanziere. Sotto si leggeva: “Non permettere che sia Soros a ridere per ultimo!



Si sentiva di continuo lo slogan “Stop Soros” e circolavano fotomontaggi che lo ritraevano a braccetto con presunti alleati mentre attraversavano una rete squarciata: la recinzione che Orbán aveva costruito per tenere i migranti fuori dall’Ungheria. Orbán sosteneva che Soros finanziava una rete mafiosa. Nell’autunno del 2017 il governo indisse una “consultazione nazionale”. Migliaia di cittadini ricevettero un questionario per dichiararsi a favore o contro il “piano di Soros”, cioè ricollocare in Europa un milione di africani e mediorientali all’anno.

 

La cifra che l’Open society aveva investito in Ungheria nel 2016 ammontava a circa 3,6 milioni di dollari. La campagna contro Soros del 2017 è costata 40 milioni di euro. Ed è stata efficace: la popolarità di Soros è calata drasticamente e un intero paese gli si è rivoltato contro. Soros era l’incarnazione del male. Ormai era in trappola: “Replicando alle accuse avrebbe solo confermato la nostra tesi, cioè che s’intrometteva nella politica ungherese”, dice Birnbaum. Candidarsi contro Orbán era altrettanto impensabile per un uomo di 87 anni. “Soros non è un politico”, dice Vachon.

 

Finkelstein aveva trovato in lui l’avversario ideale. Un Mister Liberal come l’aveva sempre sognato, l’incarnazione di tutte le contraddizioni che i conservatori odiano in quegli esponenti della sinistra che hanno successo economico: uno speculatore finanziario che allo stesso tempo chiede un capitalismo più umano. E la cosa più bella è che l’obiettivo della campagna elettorale non era un esponente politico e neanche una persona che viveva nel paese. “L’avversario perfetto è quello che puoi colpire continuamente senza che lui possa colpirti mai”, sottolinea Birnbaum. Ancora oggi si entusiasma. “Era così ovvio, il prodotto più facile di tutti, bastava impacchettarlo e piazzarlo”.

 

Il “prodotto” è così buono che si piazza da solo e finisce per fare il giro del mondo. Nel 2017 in Italia si parlava di carrette del mare finanziate da Soros. 


Nel 2018 negli Stati Uniti si ipotizzava che dietro alla “carovana” dei migranti in Messico ci fosse Soros. Matteo Salvini, in Italia, ha accusato i suoi avversari di essere pagati da Soros, e lo stesso hanno fatto Nigel Farage al parlamento europeo e i tedeschi Stephan Brandner e Jörg Meuthen, del partito populista di estrema destra Alternative für Deutschland.

 

 

L’Ungheria è stata la testa di ponte di un’operazione retorica tutta giocata fra Trump e Putin. In Austria il nome di Soros ha fatto la sua comparsa in campagna elettorale durante “l’affaire Silberstein” (dal nome del consulente politico Tal Silberstein, che durante la campagna per le elezioni politiche del 2017 avrebbe organizzato un’azione di negative campaigning contro il candidato conservatore Sebastian Kurz): alla fine è venuto fuori l’uso di falsi account Facebook che citavano il “piano” di Soros. E nel team della campagna elettorale c’erano di nuovo loro, Birnbaum e Finkelstein.

 

Il ritorno dell’ebreo cattivo

Birnbaum si difende dall’accusa di aver condotto altre campagne contro Soros fuori dall’Ungheria. Ma forse non ce n’era bisogno. In Ungheria lui e Finkelstein hanno creato il nemico più efficace che la destra contemporanea abbia mai avuto, oltretutto perfetto per la rete. 

Infatti se i siti d’informazione di destra (Breitbart e Russia Today per esempio) hanno ripreso la campagna ungherese, traducendola in altre lingue e nutrendola di nuovi argomenti, i social network hanno trasformato il malvagio Soros in un meme che ormai vive di vita propria. 


Se oggi un movimento di destra vuole costruire una campagna elettorale, basta che attinga al materiale su Soros che circola in rete. Soros è un’arma open source, gratuita, globalizzata e adattabile. Birn­baum la chiama “il minimo comun denominatore dei movimenti nazionalisti”. Non a caso Steve Bannon incitava alla lotta contro Soros quando voleva entrare a gamba tesa nella campagna elettorale europea.

 

A questo punto bisogna sottolineare un aspetto importante e allo stesso tempo assurdo di questa storia: sono stati due consulenti politici ebrei a fare di un ebreo l’obiettivo di una campagna dai tratti antisemiti. Quello che hanno costruito Finkelstein e Birnbaum si lega senza soluzione di continuità a uno dei temi più antichi dell’antisemitismo occidentale: l’ebreo cattivo e avido che vuole dominare il mondo.

 

E non c’è stato neanche bisogno che la campagna di Orbán usasse il termine ebreo: Orbán combatteva contro un “nemico”, “diverso” e “senza patria” che si vuole impossessare del mondo intero. Era logico che a quel punto sui manifesti contro Soros apparissero delle stelle di Davide: sono stati gli elettori a completare la campagna. Oggi digitando Soros su un motore di ricerca compaiono subito dei fotomontaggi con la sua testa posta su tentacoli di piovra: una classica rappresentazione antisemita.

 

Nel 2017 la comunità ebraica ungherese ha cominciato a protestare, spingendo l’ambasciatore israeliano a intervenire. Quando Zoltán Radnóti, noto rabbino ungherese, ha saputo che la campagna era stata gestita da due esponenti della comunità ebraica, ne è rimasto sconvolto. Il mondo ebraico è diviso sulla natura antisemita della campagna. Birnbaum ricorda che una volta negli Stati Uniti gli è capitato di essere preso da parte da un membro della Anti-defamation league, che gli ha chiesto spiegazioni. L’organizzazione controlla da anni l’aumento dell’antisemitismo in rete e ha dedicato un intero capitolo di una sua ricerca alla campagna contro Soros. Birnbaum, che osserva lo shabbat e fa parte di numerose associazioni ebraiche, si arrabbia. Si trattava di un progetto “puramente ideologico”, insiste. Soros rappresentava tutto quello a cui Orbán era contrario. “Pianificando la campagna non abbiamo pensato neanche per un attimo al fatto che Soros fosse ebreo”. Lui allora neanche lo sapeva. Non collabora mai con gli antisemiti e ancora prima di cominciare a lavorare con Orbán si era rivolto a persone ben informate in Israele per conoscerne la posizione sugli ebrei. Le risposte ricevute non avevano suscitato i suoi sospetti, anzi Orbán sembrava un avversario coerente dell’antisemitismo. Ha dato alla sua primogenita un nome ebraico, Ráhel. E poi aggiunge Birnbaum: “Forse che non posso attaccare una persona solo perché è ebrea?”.

 

Il fatto però è che all’epoca della campagna il nome di Soros era noto ai due consulenti da decenni. Inoltre, già negli anni ottanta Finkelstein era stato coinvolto in uno scandalo per aver individuato e usato le convinzioni antisemite di un candidato. In questo caso però le conseguenze sono state molto peggiori: questa campagna ha cambiato il mondo. Le parole sono diventate realtà.

 

Alla fine di ottobre del 2018 negli Stati Uniti Soros ha ricevuto un pacco bomba da un sostenitore di Trump. Cinque giorni dopo un uomo armato ha assaltato una sinagoga a Pittsburgh, assassinando undici persone. Era convinto di combattere il complotto ebraico. Su un suo account in rete c’erano riferimenti alla “carovana di Soros”. Interrogato in merito, Birnbaum si mostra abbattuto: “Quello che abbiamo fatto può sembrare assurdo, ma allora sembrava la cosa giusta”.

 

 

Finkelstein è morto nell’agosto del 2017. L’Ungheria è stata il suo ultimo progetto. Nel 2011, in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, aveva detto: “Volevo cambiare il mondo. L’ho fatto. L’ho reso peggiore”.

 

 

 

 

Insomma, l’unico vero nemico dei nazionalisti e sovranisti. L’unico vero potente capace di contrapporre le idee di una società aperta, senza muri e barriere, a quella chiusa, fatta di paura dell’altro, che stanno portando avanti gran parte degli Stati. Globalista contro sovranisti, sempre nell’ombra del capitalismo più sfrenato. In veste di attivista filantropico George Soros è riuscito ad intervenire negli affari interni di nazioni in ogni angolo del pianeta. Una crisi di coscienza, tra business e interesse sociale, che il magnate risolve così: «Nel business ho sempre fatto il mio interesse, ma da intellettuale ha perseguito l’interesse sociale. Quando questi due principi sono in conflitto, l’interesse pubblico deve prevalere». Una sorta di cane da guardia della democrazia che ha fondi sufficienti per agevolare una visione precisa della società e sbaragliare il campo alle destre estreme. «Tutto quello che è imperfetto può essere migliorato», si legge sul sito di OSF.

 

Sarà forse questo, in fondo, il motivo per cui il povero Soros è odiato e respinto da tutti?

 

 

 

 

 


 

 

 

 Vi ricordo che le mie ricerche sono a disposizione di tutti gratis

Ringrazio tutte le fonti dalle quale ho attinto


Alan Paul Panassiti

 

 

Credits:

https://www.tagesanzeiger.ch/das-magazin

https://www.internazionale.it/sommario/1298

https://www.internazionale.it/notizie/hannes-grassegger/2020/02/14/nemico-soros

https://www.ilsole24ore.com/art/soros-perche-finanziere-e-nemico-numero-dei-sovranisti-AEitOZKG

https://it.gariwo.net/magazine/editoriali/george-soros-il-percorso-di-un-ebreo-controcorrente-19596.html

https://www.rollingstone.it/politica/attualita/perche-ce-lhanno-tutti-con-soros/788382/

https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/italia/giorgia-meloni-e-soros-lusuraio-quando-lantisemitismo-non-ha-bisogno-della-parola-ebreo/

https://www.linkiesta.it/2018/06/elogio-di-george-soros-lunico-potente-rimasto-a-difendere-la-societa-a/

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